di Adriana Raimondi
Con sentenza del 25 settembre 2025, resa sul caso Isaia e altri c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione in un caso riguardante l’applicazione della misura della confisca di prevenzione sui beni dei ricorrenti, ritenuti proventi di attività illecite del primo di essi.
La pronuncia, di particolare rilievo anche per la pendenza di numerosi casi simili dinanzi alla Corte, affronta le problematiche legate alle misure di prevenzione patrimoniali disciplinate dal decreto legislativo n. 159 del 2011.
Nel caso di specie, i tribunali nazionali avevano disposto la confisca di prevenzione dei beni dei ricorrenti ai sensi dell’articolo 24 del decreto n. 159/2011, ritenendo che il primo di essi avesse rappresentato per lungo tempo un pericolo per la società e che i beni fossero proventi di attività criminose commesse o presumibilmente commesse in tale periodo.
A parere dei ricorrenti suddetta decisione era stata presa dai tribunali interni in assenza di una motivazione conforme al diritto e alla giurisprudenza nazionale e sovranazionale.
In particolare, veniva sottolineato che, mentre il primo ricorrente era stato considerato un individuo che rappresentava un pericolo per la società nel periodo tra il 1980 e il 2008, i beni confiscati erano stati acquistati nel 2010, 2014, 2016 e 2018, in violazione del principio della correlazione temporale tra il periodo in cui la persona in questione ha rappresentato un pericolo per la società e l’acquisto dei beni da confiscare.
In accoglimento della posizione dei ricorrenti, la Corte ha ribadito che l’imposizione della misura in parola richiede la dimostrazione, attraverso una valutazione oggettiva e motivata dei fatti e delle prove, che i beni siano stati acquistati con proventi derivanti da gravi reati in grado di generare redditi illeciti e che venga stabilito un nesso con le condotte contestate anche sotto il profilo temporale.
Invece, i giudici nazionali avevano fatto riferimento a reati commessi dal ricorrente tra il 1980 e il 2008, ma il procedimento di confisca era stato avviato solo nel 2018. Peraltro, i beni confiscati erano stati acquistati in anni successivi alla cessazione del periodo in cui il ricorrente era considerato un pericolo per la società. I giudici interni avevano basato il proprio ragionamento quasi esclusivamente sulla sproporzione tra reddito lecito e patrimonio, senza fornire prova di un legame concreto con le attività criminose pregresse. Secondo la giurisprudenza della stessa Corte europea, tale sproporzione non è sufficiente a fondare la confisca.
Un ulteriore profilo critico evidenziato riguardava il fatto che i beni non erano formalmente intestati al primo ricorrente ma al secondo e al terzo ricorrente, i quali non erano stati ritenuti pericolosi dalle autorità nazionali. Ciononostante, i giudici interni avevano ritenuto i beni nella disponibilità del primo ricorrente senza fornire alcuna motivazione specifica a sostegno di tale conclusione.
La Corte ha quindi ritenuto che le decisioni nazionali non avessero rispettato le garanzie previste né dal diritto interno né dalla giurisprudenza in materia, risultando arbitrarie e manifestamente irragionevoli. In particolare, erano state disattese le condizioni relative all’identificazione dei reati produttivi di reddito illecito, alla delimitazione temporale dei beni suscettibili di confisca e alla qualificazione dei beni intestati a terzi come disponibili per il soggetto destinatario della misura.
Considerato anche il notevole lasso di tempo trascorso tra i reati e l’avvio del procedimento, nonché l’assenza di un collegamento concreto tra le attività criminali e i beni confiscati, la Corte ha concluso che non era stato rispettato l’equo bilanciamento tra l’interesse pubblico perseguito e i diritti individuali dei ricorrenti in violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.
di Valentina De Giorgio
Con sentenza pubblicata in 23 settembre 2025, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sul caso Scuderoni c. Italia (ricorso n. 6045/24), riguardante la violenza domestica subita da una donna dal suo ex compagno e l’inerzia delle autorità italiane nell’affrontare la questione.
La vicenda alla base della pronuncia riguarda la sig.ra Valentina Scuderoni, cittadina italiana, che dopo la separazione dal compagno nell’agosto 2017, per mesi aveva continuato a vivere nella stessa abitazione con lui e con il loro figlio. Nel febbraio 2018, la sig.ra Scuderoni aveva avviato un procedimento civile, lamentando maltrattamenti da parte dell’ex compagno, affermando che lui la costringeva a restare sveglia di notte puntandole una luce addosso, la denigrava e la maltrattava psicologicamente, le impediva di accedere a certe zone della casa, spostava continuamente i suoi effetti personali e la minacciava di gettare tutti i suoi beni in strada e di rapire il figlio. Per tali ragioni, chiedeva il diritto all’uso della casa familiare e l’affidamento principale del figlio, con diritti di visita per G.C. L’udienza veniva fissata per nove mesi dopo, ma nel giugno 2018 la sig.ra Scuderoni chiedeva al tribunale che venisse anticipata in ragione degli abusi psicologici e fisici da lei subiti. Nel luglio 2018 la donna presentava un’istanza separata al tribunale per ottenere un ordine di protezione, ma tale richiesta veniva respinta. Nell’agosto 2018, il tribunale concedeva alla sig.ra Scuderoni l’uso esclusivo della casa familiare con il figlio, stabilendo i diritti di visita di G.C.
Nel frattempo, tra marzo e giugno 2018, la ricorrente aveva presentato diverse denunce penali contro l’ex compagno per violenza continuata, molestie, mancato rispetto dei diritti di visita, accusandolo altresì di aver avuto accesso illegale ai suoi account di messaggistica personali e di lavoro, di aver letto le sue comunicazioni con gli avvocati e di aver installato telecamere in casa per monitorare i suoi movimenti. Nel febbraio 2019, al termine di un’indagine in cui diversi testimoni avevano confermato le accuse della sig.ra Scuderoni circa la violenza ripetuta, il pubblico ministero decise di rinviare a giudizio G.C. per i reati di maltrattamenti in famiglia, molestie, lesioni e tentata estorsione, tutti aggravati dalla presenza del minore e dalla convivenza tra le parti. Dopo quattro anni, il procedimento penale, in cui la sig.ra Scuderoni si era costituita parte civile, si concludeva con l’assoluzione dell’ex compagno. In particolare, il tribunale affermava che il comportamento di G.C. era principalmente motivato dal risentimento per la fine della relazione con la richiedente e dalle tensioni legate alla residenza del figlio e alla convivenza forzata nella casa familiare. Il pubblico ministero, nonostante la richiesta della sig.ra Scuderoni, riteneva di non impugnare la sentenza.
Per tali ragioni, la sig.ra Scuderoni adiva la Corte europea dei diritti dell’uomo, invocando l’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e l’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata). Lamentava che nonostante i suoi ripetuti appelli e denunce rivolti alle autorità nazionali per denunciare il comportamento del suo ex compagno, i tribunali nazionali non avevano esaminato tempestivamente le sue domande, il tribunale civile aveva respinto la sua richiesta di un ordine di protezione e l’indagine penale era stata inefficace.
Con la sentenza in parola, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito, all’unanimità, che vi è stata una violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata) da parte dell’Italia nei confronti della ricorrente.
Nell’affrontare la questione, i giudici di Strasburgo hanno anzitutto affermato che la violenza domestica costituisce una grave violazione dei diritti delle donne ed è stata riconosciuta come tale sia negli strumenti internazionali pertinenti, in particolare la Convenzione di Istanbul, sia nella giurisprudenza della stessa Corte. La Corte ha poi rilevato che le autorità non avevano adempiuto al loro dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio che l’ex compagno della ricorrente potesse sottoporla a ulteriori violenze. In particolare, la richiesta di un ordine di protezione era stata respinta senza che fosse stata eseguita alcuna valutazione del rischio e il tribunale civile aveva fissato l’udienza nove mesi dopo la presentazione della domanda urgente. Inoltre, vi era stato un ritardo di due mesi prima che la denuncia penale fosse registrata.
La Corte ha inoltre ritenuto che le autorità non avessero tenuto conto dello specifico problema della violenza domestica durante l’indagine penale nonostante le prove a loro disposizione, che dimostravano che la ricorrente era vittima di abusi coniugali. In tal modo, avevano mancato al loro obbligo di fornire una risposta proporzionata alla gravità delle accuse della ricorrente. Sul punto, “[l]a Corte sottolinea inoltre la particolare diligenza richiesta nel trattamento delle denunce di violenza domestica e ritiene che le specificità dei fatti di violenza domestica, come riconosciute dalla Convenzione di Istanbul, debbano essere prese in considerazione nell’ambito dei procedimenti interni.”
Per tali ragioni, la Corte ha condannato l’Italia al pagamento a favore della sig.ra Scuderoni della somma di 15.000 euro a titolo di risarcimento per il danno morale, nonché alla rifusione delle spese e degli onorari, liquidati in 10.000 euro.
di Sara Tosi
La decisione della Corte EDU del 10 luglio 2025 si inserisce nel consolidato filone giurisprudenziale in tema di compatibilità del regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen. con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione.
In particolare, l’oggetto del giudizio attiene alla limitazione della corrispondenza del detenuto, ridotta ai soli familiari ammessi ai colloqui, che è stata disposta e rinnovata dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 18-ter ord. pen. Il ricorrente lamenta, invocando l’articolo 8 della Convenzione, la non necessarietà di tale limitazione «in una società democratica», specie alla luce della mancanza di un’adeguata motivazione nella decisione interna.
Si rammenta che il 41-bis nasce quale strumento straordinario per recidere i legami tra il detenuto e l’organizzazione criminale esterna, comportando restrizioni incisive sulla vita carceraria: colloqui, contatti, socialità, ricezione di beni. In tale cornice, la corrispondenza rappresenta dunque un punto sensibile, poiché costituisce uno dei pochi canali di comunicazione con l’esterno e, al contempo, uno dei mezzi privilegiati per il mantenimento di rapporti illeciti.
La Corte EDU non mette in discussione in sé la legittimità di un controllo generalizzato della corrispondenza dei detenuti al 41-bis, misura riconducibile alla finalità di prevenzione del crimine e di tutela dell’ordine pubblico (cfr. Provenzano c. Italia n. 55080/13, § 150, 25 ottobre 2018). Tuttavia, essa ribadisce che, quando si incide non soltanto sul controllo ma anche sulla platea dei destinatari, restringendo le comunicazioni ai soli familiari, occorre un quid pluris motivazionale. In altre parole, non è sufficiente il rinvio al ruolo apicale del detenuto o al decreto ministeriale di proroga del 41-bis: l’art. 18-ter ord. pen. esige una motivazione individualizzata e attuale, che dia conto delle ragioni concrete per le quali il controllo non sia sufficiente a neutralizzare il rischio e sia pertanto necessario un ulteriore filtro soggettivo.
In questo senso, la sentenza richiama l’attenzione sul principio di proporzionalità: il sacrificio del diritto alla corrispondenza non può fondarsi su motivazioni stereotipate, ma deve emergere da una valutazione aggiornata del comportamento carcerario, dei rapporti effettivi con l’organizzazione e dell’eventuale utilizzo distorto della corrispondenza.
La pronuncia si colloca così in continuità con un filone giurisprudenziale degno di nota (cfr. Enea c. Italia [GC], n. 74912/01, § 143, CEDU 2000; Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, §§ 176-180, CEDU 2000-IV), rafforzando il controllo sulle prassi applicative. Il messaggio ai giudici nazionali è lampante: la lotta alla criminalità organizzata non può legittimare una compressione indifferenziata dei diritti. Dunque, le limitazioni ulteriori richiederanno un giudizio autonomo e circostanziato, che eviti automatismi e garantisca al detenuto la possibilità di un sindacato effettivo.
di Maria Giusy Schiavone
Con una sentenza del 1° agosto 2025 (cause riunite C-758/24 e C-759/24), la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata su questioni di grande rilievo sollevate, in via incidentale, dal Tribunale ordinario di Roma in materia di diritto d’asilo e, in particolare, sulla nozione di “paese di origine sicuro”.
Il caso ha origine dalla domanda di protezione internazionale presentata da due cittadini del Bangladesh, dopo essere stati soccorsi in mare e trattenuti in un centro di permanenza gestito dall’Italia in Albania. Le loro istanze sono state respinte in esito ad una procedura accelerata di frontiera perché i due istanti erano considerati provenienti da un “paese di origine sicuro”, secondo quanto previsto dal decreto-legge n. 158/2024, che ha inserito direttamente in un atto legislativo l’elenco degli Stati considerati sicuri.
I due cittadini del Bangladesh hanno presentato ricorso al Tribunale ordinario di Roma avverso le decisioni di rigetto delle loro domande di protezione internazionale e, nell’ambito di tale procedimento, il giudice italiano ha deciso di sottoporre alla Corte di Giustizia alcune questioni pregiudiziali riguardanti:
La Corte di Lussemburgo nella sua decisione, pur riconoscendo che gli Stati membri sono liberi di utilizzare strumenti legislativi primari per designare i paesi di origine sicuri, ha chiarito che tale scelta deve comunque garantire il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva. I giudici europei infatti hanno affermato che, sebbene gli articoli 36 e 37 nonché l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, non ostino a che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi quali paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, ciò non deve pregiudicare la possibilità per i giudici di effettuare un controllo giurisdizionale vertente sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate nell’allegato I a detta direttiva.
Un altro punto centrale riguarda la trasparenza: gli Stati devono rendere accessibili le fonti informative sulle quali si basano per dichiarare sicuro un paese terzo, affinché i richiedenti asilo possano contestarle e i giudici possano valutarne attendibilità, pertinenza e aggiornamento. In assenza di questa pubblicità, sarebbe compromesso il diritto a un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Non solo: i giudici possono e devono avvalersi di tutte le informazioni pertinenti disponibili, siano esse informazioni pubbliche, incluse quelle fornite da UNHCR, EUAA e organizzazioni internazionali, oppure documenti di cui il giudice ha chiesto la produzione alle parti della controversia.
Infine, la Corte ha escluso la possibilità di qualificare come sicuro un paese che non lo sia per alcune categorie della sua popolazione. Sul punto, i giudici hanno affermato chiaramente che “gli Stati membri possono designare paesi di origine sicuri, conformemente all’allegato I a detta direttiva. […] I criteri enunciati in tale allegato non forniscono alcuna indicazione secondo cui gli Stati membri avrebbero la possibilità di designare un paese terzo come paese di origine sicuro pur quando, per talune categorie di persone all’interno della popolazione di tale paese, i criteri sostanziali previsti da tale allegato I non siano soddisfatti. […] Essi esprimono quindi la scelta del legislatore dell’Unione di subordinare la designazione di un paese di origine sicuro alla condizione che il paese terzo sia, generalmente, sicuro per tutta la sua popolazione e non solo per una parte di essa”.
Questa decisione assume un’importanza cruciale per la tutela dei diritti fondamentali. Da un lato, riafferma la centralità del controllo giurisdizionale e l’impossibilità di trasformare una valutazione politica in un automatismo sottratto a verifica; dall’altro, ribadisce che il diritto d’asilo resta una garanzia individuale e che ogni domanda deve essere valutata con attenzione sulla base delle condizioni personali del richiedente.
dalla Redazione dello Studio
L’Unione forense per la tutela dei diritti umani organizza una serie di incontri su “Diritto del mare e tutela internazionale dell’ambiente”.
Il seminario è aperto a tutti coloro i quali siano interessati ad approfondire l’argomento del diritto del mare e dell’ambiente, la sua giurisdizione, la gestione delle migrazioni via mare e lo sfruttamento delle risorse. Le lezioni saranno tenute da parte di alcuni dei massimi esperti in materia.
Al termine del corso è previsto il rilascio di un attestato di partecipazione. Il Consiglio Nazionale Forense ha riconosciuto n. 18 crediti formativi per la partecipazione all’intero seminario e n. 3 crediti formativi per ciascuno dei sei incontri.
Il seminario si articola in 6 incontri, che si terranno in modalità streaming attraverso la piattaforma Microsoft Teams nelle seguenti date:
Il costo della partecipazione al seminario (6 incontri) è di 220,00 € oltre IVA (270,00 € complessivi). È possibile iscriversi ai singoli incontri con una quota di partecipazione di € 45,00 oltre IVA (€ 55,00 complessivi).
Le iscrizioni dovranno pervenire entro il 7 novembre 2025. Per iscriversi è necessario compilare il modulo di iscrizione che può essere reperito sul sito dell’associazione oppure richiesto tramite mail all’indirizzo info@unionedirittiumani.it.
Per ulteriori informazioni rivolgersi alla segreteria dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani (sig.ra Gioia Silvagni), tel. 06-8412940.