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Newsletter n. 5 del 5 aprile 2022

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Sommario

L’istituto dell’adozione in casi particolari per essere conforme a Costituzione deve produrre rapporti civili tra il minore adottato e la famiglia dell’adottante.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 79 del 28 marzo 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della legge 4 maggio 1983 n. 184, nella parte in cui, rinviando all’art. 300 co 2 del codice civile, prevede che l’adozione in casi particolari non produce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante.

La Consulta, nella sentenza in commento, giungeva a tale conclusione mediante un percorso argomentativo che ripercorre l’evoluzione dell’istituto dell’adozione in casi particolari.

L’adozione in casi particolari nasceva infatti come istituto marginale, nettamente differenziato dall’adozione piena e idoneo a far fronte a situazioni particolari nelle quali può trovarsi il minore. Le ipotesi per cui può darsi luogo a siffatta adozione, scrive ancora la Consulta, potevano inizialmente essere sussunte in due ipotesi: la prima, consistente nel valorizzare l’effettività di un rapporto instauratosi con il minore (art. 44 co. 1 lett. a e lett. b); la seconda risiederebbe invece nella difficoltà o nella impossibilità per taluni minori di accedere ad una adozione piena (art. 44 co 1 lett. c e d).

L’evoluzione giurisprudenziale ampliava innanzitutto la nozione di “impossibilità” cui si riferisce l’art. 44 lett. d) secondo cui l’adozione in casi particolari può essere disposta “quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”; tale impossibilità deve riferirsi non solo ad un impedimento di fatto, ma anche ad un impedimento di diritto.

In questo modo l’istituto in commento ampliava le sue rationes in modo tale da ricomprendere nel suo ambito applicativo anche i minori che versano in stato di semi-abbandono (in ottemperanza delle indicazioni fornite dalla Corte EDU nella sentenza Zhou c. Italia del gennaio 2014) nonché i minori che hanno una relazione affettiva con il partner del genitore biologico, qualora il primo sia impossibilitato ad adottarlo (il convivente di sesso diverso del genitore biologico o il partner di un unione civile o il convivente dello stesso sesso del genitore biologico – c.d. stepchild adoption).

Il percorso evolutivo dell’istituto incrocia inevitabilmente le tematiche legate alla PMA e alla gestione per altri.

La Corte ricordava come, nella nota sentenza n. 33 del 2021 – in materia di gestazione per altri – ella stessa aveva evidenziato come l’istituto in esame offrisse “una forma di tutela agli interessi del minore certo significativa”, ma comunque “non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali”. Tra le ragioni di tale affermazione si rinveniva senz’altro l’impossibilità di istituire rapporti civili tra l’adottato e la famiglia dell’adottante per il tramite dell’adozione in casi particolari, stante il permanere del rinvio che la normativa in materia fa all’art. 300 anche dopo la riforma della filiazione del 2012 (legge del 10 dicembre 2012, n. 219).

Si osservava inoltre che la riforma della disciplina della parentela sia principalmente focalizzata sulla protezione del minore e sull’esigenza che egli cresca “con il sostegno di un adeguato ambiente familiare” e che l’adozione in casi particolari abbia l’obiettivo di realizzare il miglior interesse del minore (art. 57 co 1 legge n. 184/1983). Per di più il legislatore, ben prima della novella dell’art. 74 c.c., con l’art. 57 co 2, lasciava intendere che l’adozione di un minore non possa prescindere dal suo inserimento in un contesto familiare, tant’è che il giudice, decidere sull’adozione in casi particolari, deve valutare anche “l’ambiente familiare degli adottanti”.

Secondo la Consulta “il quadro normativo richiamato palesa, dunque, che il minore adottato ha lo status di figlio e nondimeno si vede privato del riconoscimento giuridico della sua appartenenza proprio a quell’ambiente familiare, che il giudice è chiamato, per legge (art. 57, comma 2, della legge n. 184 del 1983), a valutare, al fine di deliberare in merito all’adozione. Ne consegue che, a dispetto della unificazione dello status di figlio, al solo minore adottato in casi particolari vengono negati i legami parentali con la famiglia del genitore adottivo”. Del tutto irragionevole appariva dunque il richiamo alla disciplina di cui l’art. 300 c.c. che regolamenta l’adozione del maggiore d’età, istituto plasmato su esigenze di carattere prettamente patrimoniale.

Per queste ragioni la disciplina in commento contrasta con gli artt. 3 e 31 della Costituzione.

 Tale disciplina risulta in contrasto anche con l’art. 117 co 1 Cost, in relazione all’art. 8 CEDU, in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il riconoscimento al minore di legami familiari con i parenti del genitore, quale espressione del diritto all’identità del minore, rientra nella nozione di vita familiare (art. 8 CEDU).

In conclusione, l’art. 55 della legge 184 del 1983, nella parte in cui esclude, attraverso il rinvio all’art. 300, secondo comma c.c., l’instaurarsi di rapporti civili tra il minore adottato in casi particolari e i parenti dell’adottante, vìola gli artt. 3, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 8 CEDU.

Un’altra grande vittoria per lo studio Lana Lagostena Bassi Rosi in materia di status filiationis e ordine pubblico.

Con la sentenza n. 41686/2021 la Corte di Cassazione ha confermato il principio secondo cui il limite dell’ordine pubblico deve sempre essere valutato alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione.

Nel caso di specie, un cittadino brasiliano ricorreva alla Corte di Cassazione onde sentir cassare la sentenza della Corte d’Appello di Roma che confermava il rifiuto del Tribunale di riconoscergli la cittadinanza italiana iure sanguinis per parte di madre.

La Corte di Appello di Roma aveva motivato il proprio giudizio ritenendo che il documento del comune cui era stata indirizzata dal ricorrente la domanda non era idonea ad attestare il rapporto di filiazione. La dichiarazione di nascita era stata resa dal padre secondo le leggi brasiliane e non veniva precisato se fosse intervenuta anche la madre per far propria la dichiarazione.

La Corte d’Appello dubitava che la documentazione prodotta fosse sufficiente ad attestare la discendenza dedotta. Motivava, inoltre, che i principi fissati dalla legislazione italiana in materia di filiazione naturale costituiscono principi di ordine pubblico, con conseguenti effetti preclusivi ai sensi dell’art. 16 della L. 218/1995, che impedirebbero l’applicazione della legge dello stato brasiliano poiché contraria all’ordine pubblico. Sarebbe inibito così anche il richiamo all’art. 33 della stessa legge che prevede, al fine di stabilire lo status filiationis, l’applicazione della legge più favorevole dello stato di cui uno dei genitori è cittadino.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso e cassare la sentenza di appello, affermava che in tema di riconoscimento del diritto alla cittadinanza italiana, diritto di primaria rilevanza costituzionale, si impone al giudice di merito l’utilizzo di ogni strumento utile a chiarire un quadro probatorio insufficiente. Nel caso di specie il giudice avrebbe dovuto attivarsi nell’ambito dei propri poteri di iniziativa, rendendo “obbligata un’attività di investigazione autonomamente espletata dall’organo decidente investito della domanda di riconoscimento”.

Infine, la Corte cassava la sentenza ritenendo che il concetto di ordine pubblico debba “essere valutato alla stregua dei princìpi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali ed anche del modo in cui detti princìpi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico”.

Fine dello stato di emergenza a partire dal 31 marzo 2022

Ai sensi della legge 18 febbraio 2022, n. 11, il 31 marzo 2022 sul territorio nazionale termina lo stato di emergenza relativo all’emergenza da COVID-19.

Ciò non implica l’automatico venir meno di tutte misure messe in piedi nel corso di questi anni per far fronte all’emergenza sanitaria. Infatti, il decreto legge n. 24 del 24 marzo 2022 reca alcune disposizioni volte a favorire il rientro nell’ordinario in seguito alla cessazione dello stato di emergenza da COVID-19 considerando che, nonostante la cessazione dello stato d’emergenza, persistano comunque esigenze di contrasto del diffondersi della pandemia da COVID-19.

Di seguito le principali misure introdotte dal decreto legge in commento:

  • obbligo di mascherine ffp2 reiterato fino al 30 aprile negli ambienti al chiuso quali i mezzi di trasporto e i luoghi dove si tengono spettacoli aperti al pubblico. Nei luoghi di lavoro sarà invece sufficiente indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie; 
  • sui mezzi di trasporto non locali sarà necessario esibire il green pass base sino al 30 aprile 2022; sui mezzi di trasporto locali non sarà invece necessario esibire il green pass;
  • fine del sistema delle zone colorate;
  • reintroduzione del green pass base come sufficiente per accedere ai luoghi di lavoro anche per gli over 50;
  • permanenza dell’obbligo vaccinale per gli over 50 fino al 15 giugno 2022;
  • permanenza dell’obbligo vaccinale fino al 31 dicembre 2022 con la sospensione dal lavoro per gli esercenti le professioni sanitarie e i lavoratori negli ospedali e nelle RSA;
  • nuove misure in merito alla gestione dei casi di positività;
  • nuove misure sulla gestione dei casi di positività a scuola;
  • capienze impianti sportivi: ritorno al 100% all’aperto e al chiuso dal 1° aprile; 

Qui il testo del decreto legge n. 24 del 24 marzo 2022.

N.B. e altri c. Francia: la Corte EDU si pronuncia in un caso di detenzione amministrativa di un bambino minorenne entrato irregolarmente in Francia con i suoi genitori.

Con sentenza del 31 marzo 2022, resa nel caso N.B. e altri c. Francia (ricorso n. 49775/20), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, all’unanimità, la violazione dell’articolo 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e dell’art 34 CEDU (diritto ad un ricorso individuale).

Il caso riguardava la detenzione amministrativa per un periodo di 14 giorni, di una coppia georgiana e del loro bambino di otto anni, K. G., che entrati irregolarmente in Francia si erano visti respingere le proprie domande d’asilo.

 La Corte, nella sentenza in commento, riteneva la detenzione amministrativa nel centro di MetzQueuleu di un bambino di otto anni nelle condizioni di specie, protrattasi per 14 giorni, eccedente i limiti posti dall’art. 3 della Convenzione.

Inoltre, la Corte constava la mancata esecuzione della misura provvisoria da lei adottata il 13 novembre 2020 con cui il governo veniva invitato a porre fine alla detenzione amministrativa dei ricorrenti per la durata del procedimento.

La mancata esecuzione della misura ordinata, non accompagnata da alcuna giustificazione di sorta, comportava altresì la violazione dell’art. 34 CEDU.

Qui il testo della sentenza in commento in francese.

Al via il nuovo corso di specializzazione organizzato dall’Unione forense per i diritti umani in “Business and Human Rights”.

L’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani organizza il Corso di specializzazione in “Business and Human Rights” presso la sede del Consiglio Nazionale Economia e Lavoro (CNEL) nelle giornate del 19 e 27 maggio 2022.

Sin da quando il Consiglio dei Diritti Umani ha approvato nel 2011 i Principi Guida su Imprese e Diritti Umani (Guiding Principles on Business and Human Rights), il tema dell’impatto dell’attività di impresa sui diritti umani e l’ambiente ha assunto crescente importanza a livello globale, europeo e nazionale. Basti pensare che in seno alla stessa Unione Europea, dopo l’adozione nel 2014 della Direttiva sul reporting non finanziario per le grandi imprese, si è assistito a una costante attenzione che di recente si è tradotta in una proposta di direttiva della Commissione europea in materia di Sostenibilità delle imprese e dovere di diligenza. Il dibattito osservato negli ultimi anni non ha, inoltre, lasciato indifferente il nostro Paese che, attraverso l’azione propulsiva del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani (CIDU), è stato tra i primi a dotarsi di un Piano Nazionale d’Azione su Impresa e Diritti Umani, ormai giunto alla sua seconda edizione. In una economia sempre più globalizzata e attenta ai temi della sostenibilità, occorrono sempre più figure altamente formate, sia all’interno che all’esterno delle imprese, al fine di vigilare sulle eventuali violazione dei diritti umani.

Il Corso di specializzazione organizzato dall’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani intende offrire un quadro completo sulle sfide e le opportunità relative al rapporto che intercorre tra diritti umani e attività di impresa. L’iniziativa, ospitando interventi dall’alto valore accademico e testimonianze dei rappresentanti delle imprese, vuole promuovere una cultura della sostenibilità attraverso la formazione di avvocati e attivisti, la condivisione di best practices e la sensibilizzazione delle imprese.

Per ulteriori informazioni clicca qui.