di Adriana Raimondi
Con la recente sentenza resa nel caso Europa Way S.r.l. c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione dell’articolo 10 CEDU in relazione alla sospensione e all’annullamento della procedura di gara per l’assegnazione delle frequenze televisive digitali a cui la società ricorrente aveva partecipato.
In particolare, il caso riguarda la procedura avviata nel 2011 per l’assegnazione gratuita delle frequenze per la televisione digitale terrestre, basata sulle regole stabilite da AGCOM. Tale procedura veniva prima sospesa da un decreto ministeriale e successivamente annullata da una legge del 2012, per poi essere sostituita nel 2013 da un nuovo sistema di selezione fondato sul pagamento di un corrispettivo. La società ricorrente impugnava le misure adottate dinanzi ai giudici nazionali. Specificamente, sosteneva che la nuova legge aveva inciso in modo illegittimo sui poteri regolatori di AGCOM, autorità competente in materia di comunicazioni. Secondo la ricorrente, tale intervento legislativo violava sia la Costituzione sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Nel ricorso dinanzi la Corte EDU, la ricorrente lamentava, quindi, la violazione dell’articolo 10 CEDU, sostenendo che la sospensione e l’annullamento della procedura originaria avevano compromesso in modo illegittimo il suo diritto a diffondere informazioni e idee. Secondo la società, le autorità nazionali erano intervenute sulle decisioni indipendenti di AGCOM in materia di assegnazione delle frequenze digitali e il quadro regolamentare non aveva assicurato una protezione adeguata contro l’arbitrarietà.
La Corte EDU, con la sentenza in commento, ha ricordato il ruolo fondamentale delle autorità di regolazione nella tutela del pluralismo e della libertà dei media e ha evidenziato la necessità di garantirne l’indipendenza. Ha osservato che gli stessi giudici nazionali avevano rifiutato di applicare la legge del 2012, ritenendola incompatibile con il diritto dell’Unione europea e idonea a compromettere i poteri regolatori di AGCOM. Risulta quindi evidente che l’ordinamento interno non consentiva la sospensione della gara mediante decreto ministeriale né il suo annullamento attraverso interventi legislativi successivi.
Nel caso di specie, la Corte ha concluso che l’assetto legislativo e amministrativo relativo all’assegnazione delle frequenze digitali non aveva garantito sufficiente protezione contro l’arbitrarietà e aveva quindi comportato una violazione della libertà di espressione della società ricorrente.
di Maria Giusy Schiavone
Con una sentenza del 25 novembre 2025 (causa C-713/23), la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha affrontato una questione cruciale riguardante la libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione e la tutela della vita privata e familiare delle coppie dello stesso sesso. Il caso trae origine dalla vicenda di due cittadini polacchi, sposatisi in Germania, ai quali le autorità polacche hanno negato la trascrizione dell’atto di matrimonio perché il diritto interno non ammette il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
La Corte ha rilevato che “il rifiuto, opposto dalle autorità di uno Stato membro, di riconoscere il matrimonio di due cittadini dell’Unione dello stesso sesso, contratto durante il loro soggiorno in un altro Stato membro, costituisce un ostacolo all’esercizio del diritto di detti cittadini, sancito all’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Infatti, un siffatto rifiuto avrà come conseguenza che detti cittadini dell’Unione si vedranno privati della possibilità di ritornare nello Stato membro di cui sono cittadini proseguendo la vita familiare sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante”.
I giudici di Lussemburgo hanno inoltre chiarito che, pur restando gli Stati membri liberi di disciplinare il diritto di famiglia e di non introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso, tale competenza non può essere esercitata in contrasto con i diritti derivanti dalla cittadinanza dell’Unione. Né l’identità nazionale né l’ordine pubblico possono giustificare un ostacolo sproporzionato alla libertà di circolazione, né tantomeno una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, vietata dall’articolo 21 della Carta.
Un aspetto centrale della decisione riguarda il fatto che, nell’ordinamento polacco, la trascrizione costituisce l’unico mezzo per garantire il riconoscimento giuridico degli atti di stato civile esteri. Negarla alle coppie omosessuali, pur concedendola alle coppie eterosessuali, comporta una disparità di trattamento incompatibile con il diritto dell’Unione.
La Corte richiama anche la giurisprudenza della Corte EDU, che impone agli Stati l’obbligo positivo di garantire un quadro giuridico adeguato per la tutela delle coppie dello stesso sesso e che ha già censurato la Polonia per il vuoto normativo in materia.
In conclusione, la Corte afferma: “il mancato riconoscimento del matrimonio che due cittadini dell’Unione dello stesso sesso hanno contratto conformemente al diritto dello Stato membro nel quale tali cittadini dell’Unione hanno esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare, per il motivo che il diritto dello Stato membro di cui hanno la cittadinanza, nel quale tali cittadini dell’Unione intendono proseguire la loro vita privata e familiare, non autorizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso, è contrario ai diritti fondamentali che l’articolo 7 della Carta garantisce alle coppie di persone dello stesso sesso.
[…] Spetta a uno Stato membro che non autorizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso introdurre procedure adeguate affinché sia riconosciuto un siffatto matrimonio qualora quest’ultimo sia stato contratto da due cittadini dell’Unione durante l’esercizio della loro libertà di circolazione e di soggiorno conformemente al diritto dello Stato membro ospitante”; dunque quando la trascrizione è l’unico strumento per riconoscere un matrimonio contratto all’estero, essa deve essere garantita senza discriminazioni. In caso contrario, spetta ai giudici nazionali disapplicare la normativa interna incompatibile con il diritto dell’Unione, assicurando la piena efficacia dei diritti fondamentali.
La decisione assume rilievo sistemico: essa riafferma che la tutela della vita familiare accompagna il cittadino europeo attraverso le frontiere interne e che nessuno Stato membro può neutralizzare gli effetti di un matrimonio validamente contratto in un altro Stato dell’Unione.
dalla Redazione dello Studio
Con sentenza n. 30412 del 18 novembre 2025, la Corte di cassazione è intervenuta sul rapporto tra sovraindebitamento ed eredità con beneficio d’inventario, chiarendo che l’erede che abbia accettato l’eredità in forma beneficiata non può accedere alle procedure di ristrutturazione dei debiti previste dal Codice della crisi per il consumatore.
La vicenda trae origine da una domanda presentata al Tribunale di Latina con cui l’attrice chiedeva l’omologazione di un piano del consumatore per far fronte ai debiti lasciati dai genitori, pur avendo accettato l’eredità di entrambi con beneficio d’inventario.
Il Tribunale accoglieva la domanda, nonostante l’opposizione della banca creditrice. La sentenza veniva tuttavia riformata dalla Corte d’appello di Roma, secondo cui la separazione dei patrimoni, conseguenza naturale del beneficio d’inventario, esclude in capo all’erede lo stato di sovraindebitamento necessario per accedere alla procedura.
Tale posizione è stata confermata dalla Cassazione che, nella sentenza in commento, ha formulato il seguente principio di diritto: “L’erede che accetta con beneficio d’inventario l’eredità devolutagli da un soggetto prospettato quale consumatore sovraindebitato non è legittimato a proporre domanda per la ristrutturazione dei debiti del de cuius ai sensi del CCII con riferimento allo “stato” in cui questi versava, in quanto – nel mentre non può presentare il ricorso “in luogo” o “in sostituzione” del defunto – difetta nella sua persona il presupposto oggettivo del sovraindebitamento, dal momento che proprio il beneficio d’inventario impedisce che la dedotta insostenibilità dei debiti patita dal de cuius si traduca in uno “stato di crisi o di insolvenza” dell’erede”
di Florida Avdullaj
Lo scorso 24 novembre è stato presentato alla Camera dei Deputati il rapporto “Italia e parità di genere: ridefinire le priorità e accelerare il cambiamento” di UN Women Italy, elaborato in collaborazione con Deloitte. Il documento, oltre a fornire un quadro accurato sulla condizione dell’occupazione femminile, offre precise linee guida da adottare per ridurre il gender gap nel nostro paese.
Il divario di genere, seppur con notevoli miglioramenti, resta in Italia un fenomeno particolarmente marcato nelle sue direttrici economiche, sociali e culturali. Nel primo trimestre del 2025, il 53,7% delle donne tra i 15 e i 64 anni risultava occupato, contro il 71,2% degli uomini, posizionando il nostro paese tra i primi in Europa per differenziale occupazionale. Il Global Gender Gap Report, elaborato dal World Economic Forum ogni anno per analizzare la parità di genere sulla base di quattro criteri (partecipazione e opportunità economiche, istruzione, salute e benessere, ed empowerment politico delle donne), colloca l’Italia all’85° posto su 148 nazioni, sottolineando problematiche nella partecipazione economica femminile.
In Italia le donne, oltre ad avere un reddito pro capite medio pari al 56,7% di quello maschile, sono penalizzate anche a livello di copertura di posizioni di rilievo: le imprese femminili rappresentano il 22,2% del totale in quanto le imprenditrici trovano spesso difficoltà nell’ottenere capitale durante le fasi iniziali, a causa di pregiudizi di genere nei mercati finanziari. Le donne occupano solo il 2,2% delle posizioni di CEO nelle società quotate e appena il 3,5% sono alla presidenza, dati che evidenziano un divario rilavante nelle possibilità di carriera e nella copertura di ruoli apicali, penalizzando la piena valorizzazione della leadership femminile. La stessa tendenza si verifica anche negli ambienti accademici, dove il 46% dei ricercatori è rappresentato da donne, le quali però ricoprono i vertici solo per il 28% dei casi, percentuale che cala al 18% nei reparti di discipline scientifiche. Le studentesse italiane STEM sono il 16,4% a fronte del 36% costituito dagli uomini, dato che rispecchia un forte pregiudizio ai danni delle donne negli ambienti tecnico-scientifici.
L’occupazione femminile, più discontinua e disomogenea rispetto a quella degli uomini, soffre anche per la debolezza di infrastrutture sociali per la vita familiare (accesso indipendente all’abitazione, servizi per l’infanzia e congedi parentali maschili) che condizionano la vita lavorativa delle donne, costrette a ridurre gli orari e a interrompere le carriere, minando la valorizzazione del loro capitale umano e il loro empowerment, con impatti negativi su innovazione, competitività, benessere collettivo ed evoluzione culturale del paese.
“Colmare il divario di genere in Italia richiede una responsabilità condivisa e un impegno congiunto tra istituzioni, imprese, sistema educativo e società civile, al fine di trasformare la parità di genere da semplice obiettivo sociale a leva strategica di crescita economica e competitività” sostiene Silvana Perfetti, Chair di Deloitte Central Mediterranean, evidenziando quanto “la costruzione di contesti inclusivi in cui competenze e opportunità possano svilupparsi pienamente” vada “a beneficio dell’intera collettività e del progresso sostenibile del Paese”.
dalla Redazione dello Studio
L’Unione forense per la tutela dei diritti umani organizza una serie di incontri su “Cooperazione giudiziaria internazionale”.
Il seminario è aperto a tutti coloro i quali siano interessati ad approfondire l’argomento della cooperazione giudiziaria in materia penale e civile e le strutture istituzionali di supporto. Le lezioni saranno tenute da parte di alcuni dei massimi esperti in materia.
Al termine del seminario è previsto il rilascio di un attestato di partecipazione. Il Consiglio Nazionale Forense ha riconosciuto n. 12 crediti formativi per la partecipazione all’intero seminario e n. 3 crediti formativi per ciascun incontro.
Il seminario si articola in 4 incontri, che si terranno in modalità streaming attraverso la piattaforma Microsoft Teams nelle seguenti date:
Il costo della partecipazione al seminario (4 incontri) è di 150,00 € oltre IVA (183,00 € complessivi). È possibile iscriversi ai singoli incontri con una quota di partecipazione di € 45,00 oltre IVA (€ 55,00 complessivi).
Le iscrizioni dovranno pervenire entro il 6 febbraio 2026. Per iscriversi è necessario compilare il modulo di iscrizione che può essere reperito sul sito dell’associazione oppure richiesto tramite mail all’indirizzo info@unionedirittiumani.it.
Per ulteriori informazioni rivolgersi alla segreteria dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani (sig.ra Gioia Silvagni), tel. 06-8412940.

